Il tumore ovarico borderline e le recidive: il racconto di Mariarita
Oggi parliamo di tumore all’ovaio con la testimonianza di Mariarita Sciortino. Nonostante il percorso complesso di un tumore borderline ovarico che diventa tumore recidivo all’apparato genitale, ha saputo trovare nella malattia l’occasione per una nuova vita. Con il suo progetto “Rinascere nella gioia“, aiuta altre donne che attraversano il cammino tortuoso della malattia.
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Grazie a un approccio olistico che mira a ricostruire la gioia di vivere, oggi Mariarita aiuta altre pazienti oncologiche ad affrontare le diverse dimensioni del recupero post-malattia: l’elaborazione emotiva, la riconnessione con il corpo e la trasformazione del pensiero. Un traguardo che lei stessa ha tagliato, con un lungo lavoro su se stessa innescato dalla diagnosi oncologica inaspettata. Un percorso che si evolve con la comparsa di altre due recidive tumorali che, dopo l’intervento per un un tumore borderline all’ovaio, costringono alla rinuncia dell’utero e del sogno di maternità.
I sintomi del tumore all'ovaio: un fulmine a ciel sereno
Mariarita Sciortino ha 48 anni e tanta energia e vitalità che nemmeno quel fulmine a ciel sereno di 15 anni fa è riuscito a spegnere. “Ho un’anima doppia: mi occupo sia di marketing che di supporto e counseling alle donne che hanno avuto un percorso di malattia. Sono siciliana, ma vivo a Milano da vent’anni”.
Il suo percorso con il cancro inizia nel 2010, quando a 33 anni scopre di avere un tumore ovarico. “È stata una sorpresa perché stavo benissimo e avevo una vita molto intensa. Una notte mi sono svegliata con un dolore lancinante al basso ventre. Non avevo fatto particolare attenzione a qualche malessere nei giorni precedenti, ma quella notte mi sono preoccupata”.
A volte il corpo ci lancia segnali che tendiamo a ignorare, finché non diventano impossibili da trascurare. L’esperienza di Mariarita sottolinea quanto sia importante ascoltarlo, anche se in questo caso la gravità è emersa in modo estremamente rapido.
Il carcinoma ovarico va operato subito
Da quel dolore addominale si passa all’ecografia intravaginale. “Non sono nemmeno riuscita a fare i marcatori tumorali, perché poco dopo l’ecografia mi hanno comunicato che entro 72 ore sarei stata operata. Non c’è stato il tempo di comprendere cosa stava succedendo. Credo che il mio cervello non abbia avuto modo di elaborare l’informazione”.
I ricordi scolpiti nella memoria di Mariarita sono due: l’impressione di avere la testa avvolta dalla nebbia e il senso di disperazione che prova per la prima volta. “Ero a Torino e ho chiamato il mio compagno a Milano per dirgli di venire a prendermi, perché dovevo fare un intervento. Senza tempo o modo di mettere in discussione la diagnosi di sospetto tumore alle ovaie, mi sono affidata ciecamente. Cosa fai in quel momento? Ti dicono che hai bisogno di un’operazione d’urgenza e non conosci altre strutture o altri medici. Ti fidi e basta”.
Infatti, l’improrogabilità dell’intervento, resa necessaria dalla natura e dalle dimensioni della massa tumorale, toglie a Mariarita la facoltà di cercare un secondo parere o di elaborare gradualmente la notizia. Come accade a molte pazienti catapultate in un percorso medico senza sintomi che diano preavviso.
Che cos'è un tumore borderline?
“Il motivo di tanta urgenza era il risultato dell’ecografia. Quella che sembrava una cisti, molto grossa (era una massa di 11 cm x 6), con la sua morfologia rappresentava già un campanello d’allarme. I medici quindi volevano rimuoverla subito e poi verificarne la natura. L’esito immediato è stato un tumore borderline G1“. I Bot, tumori borderline dell’ovaio, sono neoplasie che presentano solo alcune caratteristiche dei tumori maligni: niente per cui tirare un sospiro di sollievo, però.
“Nel 2010 non si sapeva molto dei tumori borderline e uno dei due chirurghi era dell’idea di rimuovere anche l’altro ovaio” prosegue Mariarita. “Per fortuna, la ginecologa presente è riuscita a limitare l’asportazione ed evitare un intervento demolitivo. Sono entrata in sala operatoria a 33 anni con un apparato riproduttivo integro e ne sono uscita dopo la rimozione dell’ovaio di destra, che era stato inglobato proprio dal tumore borderline”.
Superata l’operazione chirurgica, Mariarita crede di potere archiviare l’accaduto: via il dente, via il dolore. “La parola tumore è tremenda. Quando ti dicono che con un intervento tutto può essere concluso, non vuoi neanche pensare alla possibilità di recidive”.
Però, il concetto di ‘tumore borderline’ si riferisce ai tipi di tumore ovarico che non hanno tutte le caratteristiche di malignità, ma neanche quelle di benignità assoluta. Dunque, il potenziale incerto richiede attenzione e monitoraggio. Perché anche una diagnosi classificata come borderline può evolvere in modo complesso, come ci dimostra la storia di Mariarita.
La recidiva e il tradimento del corpo
Purtroppo, il tumore ritorna. “Durante i controlli di follow up, la TAC ha visualizzato una macchia e l’approfondimento con la risonanza magnetica ha mostrato una recidiva al peritoneo”. Per Mariarita comincia un periodo complesso. Dopo il primo tumore ovarico si è trasferita e ha cambiato impiego, a seguito di una vicenda spiacevole che l’aveva lasciata disoccupata.
“Proprio quando ho trovato un nuovo lavoro ho anche scoperto la recidiva del tumore. È stato un colpo destabilizzante. Quella bella azienda mi aveva accolto bene, mi sembrava che la vita fosse ripartita dopo un periodo difficile e invece…. Ho toccato con mano la delusione e il concetto di tradimento del corpo. Quando sembrava che ogni cosa si stesse sistemando, mi sono ritrovata a ricominciare tutto daccapo”. Anche stavolta gli eventi si succedono rapidamente. Dalla scoperta della recidiva tumorale all’operazione passano poco più di due settimane.
“Non volevo intaccare il mio nuovo lavoro e non intendevo mettermi in malattia dopo pochi mesi. Così ho accettato di fare l’intervento il 23 dicembre”. Come racconta Mariarita, la scoperta del tumore recidivo è un colpo durissimo perché fa crollare i sogni costruiti sulla speranza di aver superato la malattia.

“Con la psicoterapia ho capito che la genitorialità si può manifestare in tanti modi e non solo quando si ha un figlio proprio”.
Mariarita Sciortino autrice di ‘Io (mi) curo. Una storia di tumori, timori e trasformazioni’ (ed. KS Books),
Nascondere la chemio ai colleghi
Il secondo intervento è più difficile da gestire perché serve la chemio. “Le paure arrivate con la nuova diagnosi mi hanno messo in contatto con la mia fragilità. Mi aggrappavo a qualsiasi cosa potesse darmi forza per andare avanti. In quel momento, il lavoro era prezioso e non potevo permettermi di perderlo nuovamente. Mi sono sottoposta a sei cicli di Carboplatino e Taxolo. Chi l’ha fatta sa che è un mix abbastanza destabilizzante, molto potente. Gli effetti collaterali spaziavano da quelli visibili come la perdita di capelli, sopracciglia e tutti i peli del corpo a quelli dolorosi alle articolazioni. E poi c’era quel senso di spossatezza mentale, potenziato dall’alternarsi di sonnolenza e insonnia anche a causa del cortisone. Ma sono comunque riuscita a nascondere ai miei colleghi tutta la chemio”.
Mariarita decide di avvisare solo il suo capo, perché non può non farlo, e chiede il silenzio con tutti i colleghi di lavoro. “Mi ero comprata una parrucca simile ai miei capelli. Erano lunghi, così li ho accorciati prima di cominciare la chemio, confidando che le persone si abituassero a vedermi diversa. Ho iniziato a indossare la parrucca tre settimane prima di perdere i capelli e ho aggiunto gli occhiali per camuffare lo sguardo. Con la chemioterapia sono saltati tutti i peli del corpo, ciglia e sopracciglia. Siccome volevo nascondere questo particolare rivelatore, ho preso anche a truccarmi di più. Confidavo nella disattenzione e nella mia capacità di camuffarmi”.
Non solo: studia anche un’agenda per fare la chemioterapia in modo che i colleghi non se ne accorgano. “Programmavo le chemio per il giovedì così da avere i giorni peggiori, che sono il secondo e il terzo, nel fine settimana e poter ritrovare energia per il lunedì mattina. Così è stato, da febbraio a fine giugno”.
Riuscire a mantenere la normalità, anche indossando una ‘maschera’, può essere una strategia utile per affrontare il periodo più duro nella cura di un tumore recidivo. Questo espediente le permette infatti di mantenere un contatto con la vita ‘di prima’ e di allontanare, almeno in certi momenti, il peso della condizione di malato.
Sdoppiarsi per trovare una via d’uscita
“C’erano due parti di me. La parte pubblica mi consentiva di rimanere nella quotidianità, come se il tumore e le terapie non ci fossero. Appena aprivo la porta di casa, mi liberavo della parrucca, della maschera e mettevo a nudo la parte più intima e fragile che aveva bisogno di supporto e di cura”.
Il supporto dei cari è fondamentale, ma la malattia resta un’esperienza profondamente personale e solitaria. Come dice Mariarita, si è soli nel senso che nessun altro può entrare nella tua area più intima del confronto con la malattia. Avere alleati è, però, fondamentale anche per alleggerire il peso della tempesta che si agita dentro. “Andrea, il mio compagno, è stata una presenza preziosa. Sapeva di cosa avevo bisogno, e mi abbracciava con le sue cure e la sua delicatezza. Per me le sue attenzioni, così come quelle delle mie sorelle e dei miei genitori erano un nutrimento che mi dava forza. Quando ho fatto la chemioterapia, mia mamma è venuta dalla Sicilia per accudirmi”.
Il nuovo tumore spegne il sogno di maternità
La terza brutta notizia arriva a conclusione delle terapie. “Me ne sono accorta dai marcatori tumorali che monitoravo, perché erano schizzati alle stelle. Tra il primo e il terzo tumore, i controlli hanno avuto un ruolo fondamentale, ma ogni volta che dovevo aprire una busta erano botte di ansia. Chiedevo ad Andrea di farlo oppure sbirciavo i risultati tenendo la busta in controluce per vedere se c’erano asterischi”.
Quella volta, però, Mariarita apre la busta da sola mentre è al lavoro. “Sono rimasta interdetta, non riuscivo a parlare. Una collega mi ha visto in lacrime e mi ha abbracciato. Ho chiamato il mio compagno: ‘Andrea è tornato, è tornato’. Lui è corso da me in azienda e mi ha portato subito in ospedale. ‘Non possiamo più tenerlo’, ci hanno detto i medici riferendosi all’utero. Io e Andrea non abbiamo avuto bisogno di parlarci. È bastato il nostro sguardo d’intesa: non avevamo altra scelta.
A meno di tre settimane dal matrimonio Mariarita si sottopone all’isterectomia. “Avevamo in progetto di sposarci e ci sembrava che, dopo dieci mesi di cure, potessimo finalmente coronare il nostro sogno d’amore. Stavamo insieme da dieci anni, ma avevamo bisogno di quell’energia di buon auspicio. Il matrimonio era la celebrazione della nostra vita comune e la possibilità di avere un figlio. Tutto questo si è scontrato con la realtà che, dopo il tumore all’ovaio ha reso necessaria anche l’asportazione dell’utero”.
Quando il cancro colpisce donne giovani, l’aspetto della maternità diventa centrale. Le cure o gli interventi possono compromettere la fertilità, mettendo in discussione progetti di vita fondamentali. Ecco perché, quando possibile, oggi si consiglia di agire preventivamente, con la crioconservazione degli ovociti.
L'impatto del tumore ovarico sulla coppia
L’impatto del tumore borderline si è fatto sentire a diversi livelli. “Il tumore ha avuto un forte contraccolpo sulla donna di 37 anni, con una maturità sessuale e una femminilità sembrava messa fortemente in discussione. C’è stato l’ingresso netto e senza gradualità nella menopausa indotta. Questo fattore da una parte comporta degli effetti fisici, e nel mio caso ha anche scatenato dubbi esistenziali profondi. Mi domandavo: che senso ha la mia esistenza se non posso nemmeno procreare?”.
Per alcune donne che si trovano a non poter avere figli, per scelta o per cause di forza maggiore come la malattia, questa situazione vissuta come “menomazione” muove profonde domande esistenziali. “Io ci ho dovuto lavorare molto con la psicoterapeuta, per scoprire di poter essere comunque madre. Il senso della maternità è più ampio, ed è intrinseco nell’amore che si può convogliare in tanti frangenti della vita. Si può dare amore ai nipoti, mettere amore nella progettualità per altre persone, per altre donne…”
“Andrea è stato straordinario in tutto il percorso, ma c’era un’attenzione focalizzata su di me nella parte della malattia. Mentre l’infertilità generata dal tumore borderline non ha avuto effetto solo sulla mia persona ma ha investito la coppia. Non ha comportato solo la mia rinuncia alla maternità, ma ha anche determinato in Andrea la preclusione alla paternità. Non è affatto un elemento secondario, perché nella coppia si è in due”.
L'impatto del tumore sul partner
E poi c’è l’impatto che un tumore ha sui singoli componenti della coppia, soprattutto se il cancro investe una sfera presieduta dalla comunicazione di coppia: la sessualità. Infatti, una ripercussione in termini psico emotivi c’è stata anche sul partner di Mariarita, Andrea.
“Anche il suo corpo ha avuto difficoltà a entrare nell’intimità, difficoltà a sentirsi potente” ci ha spiegato Mariarita. “Io, però, inizialmente non ho capito chiaramente l’origine dei problemi nella sfera sessuale. Fino a quando Andrea non mi ha spiegato apertamente che per lui fare l’amore non era più lo stesso da quando aveva scoperto di non poter essere più padre”. Questo è un argomento delicato che Mariarita approfondisce nel suo libro.
Tumore e sessualità: come superare le difficoltà
Mariarita ha subito 5 operazioni in circa 5 anni, dai 33 ai quasi 38 anni. “È tanto in una coppia giovane. Non si ha più la stessa routine, lo stesso ménage sessuale. Bisogna prestare molta attenzione e delicatezza anche nel concedersi delle coccole. Nel mio caso, la combinazione di avere accanto un uomo di dieci anni più di me – quando ci siamo trovati all’apice delle difficoltà ne aveva 47 – e con una grande sensibilità, è stata preziosissima perché Andrea ha saputo trasmettermi sempre il suo amore con delicatezza, attenzione e presenza”.
I momenti di difficoltà arrivano, ma attraverso il dialogo aperto all’ascolto si possono superare. “Il nostro segreto è stato parlarne sempre, quando mi sono trovata io in una situazione critica e viceversa. Inizialmente, quando Andrea ha manifestato i problemi fisici, ero titubante, temevo che sollevando il problema avrei potuto ferirlo o farlo sentire colpevolizzato. Invece, ho scelto di esprimere quello che sentivo con la volontà di comprendere. Con semplicità gli ho detto che avevo bisogno di capire. Porre domande come: ‘Non ti piaccio più?’ ‘Non mi trovi bella?’ e propositi come ‘Possiamo lavorare insieme’ oppure ’Possiamo farci guidare da uno psicoterapeuta’ sono stati il nostro punto di partenza. La nostra coppia poteva scegliere di crescere affrontando anche questo aspetto oppure perdersi”.
Mariarita non ha nessuna intenzione di mettere in discussione la sua relazione così solida e profonda, e il compagno è della stessa idea. “Abbiamo deciso di ripartire dal nostro amore, dalla possibilità di superarlo insieme e ricostruire la nostra intimità. Andrea aveva anche suggerito la possibilità di una maternità surrogata, visto che l’adozione per i pazienti oncologici è complicata, mostrando così la disponibilità a percorrere ogni strada”.
Effettivamente, è solo dal 2024 che la Legge sull’oblio oncologico è riuscita a eliminare ogni discriminazione anche rispetto al diritto all’adozione. Oggi, un ex paziente oncologico che intende adottare un bambino deve presentare il certificato di oblio oncologico al Tribunale, che attesta la guarigione secondo un tempo stabilito, tutelando così i diritti dell’ex paziente e quelli del minore da adottare.
L'amore si può donare sempre
“Una volta che entrambi abbiamo fatto pace con questo desiderio disatteso è arrivata Nina, la nostra cagnolina. Lei ci ha dato la possibilità di donare amore e prenderci cura di qualcuno anche al di fuori della coppia. Adesso ci sentiamo genitori”.
Il percorso di accettazione e ridefinizione della genitorialità, come quello della maternità è un processo che richiede tempo e spesso supporto professionale. Poter contare su un supporto psicologico è molto importante, per fare fronte alla grande varietà di cambiamenti dettati dalla comparsa della malattia oncologica.
Trovare nuove forme di espressione della propria capacità di cura e amore, come nel caso di Mariarita e Andrea con Nina, offre la strada per “rinascere”.
La trasformazione: 'Io mi curo' oltre il tumore
Come racconta nel suo libro,“Io (mi) curo. Una storia di tumori, timori e trasformazioni” (ed. KS Books), insieme al cancro oltre alle paure arrivano anche le occasioni di cambiamento. “Questo percorso lungo e tortuoso mi ha portato a capire molto di me stessa. È stata una trasformazione, suddivisa in tre momenti di passaggio, in cui il corpo mi ha fatto comprendere cose importanti. Ho imparato ad abbandonare comportamenti malsani come l’abnegazione nel lavoro, reprimere bisogni ed emozioni. Ho lavorato sulla consapevolezza per sapere intercettare quei comportamenti che adottavo inconsapevolmente. E ho capito chi è davvero Mariarita”.
Sorella gemella in una famiglia con due coppie di gemelle, Mariarita è cresciuta con la difficoltà di riconoscere e affermare la sua autenticità e l’unicità. Realizzarsi dal punto di vista lavorativo è diventata una priorità. “Ma evidentemente ho perso il centro, il focus, che sono io con le mie emozioni e i miei bisogni” ammette con la soddisfazione di chi ha trovato il bandolo della matassa.
“Grazie ai percorsi di evoluzione personale, ho compreso che la mia storia può essere d’aiuto ad altre persone che come me si sono trovate a fare i conti con la malattia in un periodo costruttivo e maturo della vita. Nel libro racconto del lavoro di riappropriazione di me stessa e della mia vera voce. Ora, però, voglio anche offrire percorsi di accompagnamento e di supporto alle donne che devono rimettere in discussione la propria vita”.
Per quanto devastante, una malattia come un tumore borderline dell’ovaio può diventare un catalizzatore del cambiamento, dare una spinta a fermarsi, ascoltarsi e rinegoziare la propria relazione con sé stessi e con il mondo. Il concetto di “curarsi” assume così un significato più ampio, che va oltre la terapia medica.
Rinascere nella gioia: un percorso per tutti
Il nuovo progetto di Mariarita si chiama Rinascere nella gioia. “Racchiude l’intenzione di riaffacciarsi alla vita senza negare ciò che c’è stato. Nel percorso c’è una fase di elaborazione del vissuto e di contatto con le emozioni per imparare a riconoscerle e poi lasciarle andare” spiega Mariarita. “Questa è una fase necessaria per riappropriarsi della vitalità del proprio corpo. Il corpo è lo strumento della malattia, ma è soprattutto la vittima. Dobbiamo riabilitarlo soprattutto quando fatichiamo a vederci ‘come prima’. Noi siamo corpo, e la gioia non può arrivare senza un coinvolgimento attivo del corpo”.
Serve poi agire su quello che gli inglesi chiamano mindset e trasformare le convinzioni malsane che ci tengono in una stagnazione in cui il sistema immunitario rischia di indebolirsi. “Il percorso che attuo avvia al pensiero sano che coltiva la fiducia, la speranza, e afferra la gioia che ci terrà su un cammino di salute, il più a lungo possibile”.
Mariarita ha trasformato la sua esperienza in un dono per altre donne, creando un percorso che con un approccio olistico che mira a ricostruire la gioia di vivere. “Il mio più grande sogno è poter vedere delle donne felici, contente e realizzate, anche quando il percorso di vita è stato accidentato”. Un sogno che racchiude in sé la speranza e la capacità di guardare avanti, nonostante le tempeste affrontate.
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