Il tumore alla tiroide ha messo a fuoco i sogni di Francesca


La diagnosi di carcinoma papillifero della tiroide con metastasi ai linfonodi scuote la vita della giovane Francesca. Inizia così un percorso fatto di diagnosi improvvisa, intervento chirurgico e isolamento terapeutico. Ma la malattia non spegne i sogni di Francesca che ci racconta il suo cammino segnato dalle cicatrici

Francesca Gabriele ha 27 anni e vive vicino a Roma. Il suo sorriso arriva prima della sua voce e racconta molto di lei: una giovane donna curiosa, appassionata, piena di entusiasmo per la vita. Dopo anni di lavoro nella contabilità, ha deciso di cambiare strada per seguire la sua vera vocazione. Oggi è content creator, narratrice di viaggi.

«Sono sempre stata una persona creativa e curiosa» racconta. «I viaggi sono la mia passione e i social il mio passatempo preferito. A un certo punto ho deciso di trasformarli in un lavoro vero e proprio». Così è nato il suo canale YouTube La Flaca, una vita con la valigia, dove documenta esperienze, scoperte, luoghi e anche il suo percorso di malattia. Il nome curioso affonda le radici in una storia personale tenera e un po’ ironica: un soprannome nato per gioco con il suo compagno dopo un viaggio vinto insieme a Marrakech.

Quel canale, pensato inizialmente per raccontare il mondo e l’avventura, ha offerto a Francesca anche lo spazio per i capitoli di un diario di sopravvivenza e rinascita. Pagine dove si parla di sogni e di cicatrici.

Perché quando la diagnosi di tumore alla tiroide è arrivata, Francesca si trovava nel momento esatto in cui sognava di costruire qualcosa di nuovo. E ha scelto di non fermarsi.

Il nodulo tiroideo sintomo di un tumore maligno

Il più delle volte nel carcinoma papillare tiroideo i sintomi sono assenti. I segnali sospetti, come la difficoltà a deglutire, parlare o addirittura a respirare, si manifestano solo in particolari forme del tumore. Infatti, anche nella sua testimonianza, Francesca ci conferma che il tumore alla tiroide si è fatto strada dentro di lei silenziosamente.

Non ci sono segnali evidenti. La tiroide non dà alcun dolore, nessun sintomo particolare. Solo una leggera sensazione di gonfiore spinge Francesca, nel 2023, a sottoporsi a un’ecografia per scrupolo. Una prassi, niente di più. I controlli alla tiroide, dopotutto, li aveva sempre fatti fin da bambina per una lieve tendenza al sovrappeso, ma erano sempre risultati nella norma.

«Quell’ecografia non sembrava preoccupante: mi dissero che avevo dei noduli, ma benigni. E che i linfonodi ingrossati erano dovuti a una mononucleosi silente, poi rientrata da sola» spiega con la lucidità di chi ha imparato a raccontare ogni dettaglio. «Mi consigliarono semplicemente di ripetere il controllo dopo un anno». E lei lo fa.

Nel 2024 torna per l’ecografia di routine. I noduli non sono cambiati di una virgola. Ma l’ecografista, per scrupolo, le suggerisce un agoaspirato. «Mi dissero che la situazione era “dubbia”. C’era una possibilità su due che si trattasse di un tumore benigno e una su due che mutasse in tumore maligno» ricorda. L’endocrinologo le dice chiaramente che è meglio asportare la tiroide per non correre rischi.

I linfonodi ingrossati sono sospetti

Invece, per il chirurgo che visita Francesca qualcosa non torna. Lui presta attenzione a quei linfonodi ingrossati e dimenticati «Formavano dei pacchetti, come se si inglobassero l’uno con l’altro» spiega. Il chirurgo decide di approfondire con un agoaspirato dei linfonodi. Il verdetto arriva e toglie ogni spazio ai dubbi: la tireoglobulina alta nei linfonodi è anomala, ed è il segnale che si tratta di un carcinoma papillare con metastasi linfonodali.

«Da quel momento è successo tutto in venti giorni», racconta Francesca. Il tempo si comprime. Dalla diagnosi del carcinoma papillifero all’intervento passa meno di un mese. Una corsa contro l’ignoto, dove è ancora difficile comprendere pienamente la portata di ciò che sta accadendo. «Ero così spaesata che ho pensato addirittura di rimandare l’intervento a dopo il viaggio che avevo in programma».

Il tempo sospeso dell'intervento alla tiroide

Il 31 ottobre 2024, Francesca entra in sala operatoria con un misto di paura e speranza. L’intervento previsto è una tiroidectomia totale, ma la presenza delle metastasi richiede anche una linfadenectomia: verranno rimossi dieci linfonodi laterocervicali sinistri e cinque linfonodi centrali, vicino alla tiroide.

«Mi avevano detto che l’intervento sarebbe durato due, due ore e mezza. Invece ci sono volute quasi sei ore, proprio per la grande quantità di linfonodi rimossi. Quando mi sono svegliata, ero felice. Sì, proprio felice. La mia più grande paura era di non riaprire più gli occhi dopo l’anestesia. Quindi, sentire la voce dell’equipe che mi diceva ‘Francesca, è finita’ mi ha riempita di sollievo».

Francesca racconta il post-operatorio come un’esperienza quasi sospesa tra stanchezza, drenaggi fastidiosi e notti difficili in ospedale. Dopo pochi giorni è di nuovo nel silenzio di casa con i pensieri ancora confusi e il collo fasciato. «La vera batosta è arrivata quando ho visto la cicatrice per la prima volta. Finché era coperta, finché non la guardavo, era come se non esistesse davvero. Poi, allo specchio, è diventata reale».

Quel taglio netto sul corpo è il simbolo di qualcosa che è cambiato per sempre dentro di sé. Mentre fuori il mondo ricomincia a muoversi come se niente fosse, in Francesca prende forma una nuova consapevolezza. Il peggio sembra passato, eppure il vero impatto della malattia deve ancora cominciare.

La tiroidectomia lascia cicatrici visibili e invisibili

Quando Francesca torna a casa, si sente più leggera. Non fisicamente, perché ci sono ancora i postumi dell’intervento, la stanchezza, la pelle che tira, ma psicologicamente. L’operazione è andata bene, il pericolo immediato sembra superato. Ma la malattia, si sa, ha tempi tutti suoi. E si fa sentire proprio quando tutto sembra tornare normale.

Francesca non aveva mai visto una cicatrice da tiroidectomia, e la sua durante il ricovero era sempre nascosta da cerotti e fasciature. Quando il medico le dà il permesso di scoprirla, il colpo è duro: «Era molto lunga, ancora piena di croste. Nonostante mi dicessero che sarebbe migliorata, in quel momento la vedevo spaventosa». Francesca non è preparata e l’immagine che le rimanda lo specchio la coglie di sorpresa, la cicatrice alla tiroide richiede cure, creme e trattamenti per guarire.

Quella ferita sulla pelle diventa la porta su un’altra ferita, forse più difficile da attraversare: la solitudine. «L’altro momento critico è stato tra Natale e Capodanno quando mi sono resa conto che amici e familiari erano tornati alle loro vite. Con l’operazione erano stati tutti molto presenti, avevo ricevuto centinaia di messaggi, chiamate… Poi, all’improvviso, il silenzio. Io ero ancora lì, con il corpo che faticava a riprendersi e la mente che cominciava solo in quel momento a comprendere la portata di un tumore alla tiroide. E mi sentivo sola»

In quel momento affiora la domanda che ogni paziente oncologico conosce: ‘Perché a me?’. Un interrogativo che quando compare il carcinoma tiroideo non trova spazio per emergere, perché esami, appuntamenti e anestesie catalizzano tutta l’attenzione. Ma poi esplode insistente.

«Confesso che all’inizio non mi ero resa conto di quanto fosse grave la situazione. Solo con la terapia ho realizzato che la mia reazione era stata quella di una macchina: andavo avanti, facevo quello che mi dicevano, senza pormi troppe domande»

Oggi la risposta a ‘Perché a me?’ Francesca l’ha trovata. «Non c’è un perché. È successo a me come capita a chiunque. Perché la malattia fa parte della vita».

Le parole semplici, ma profondamente vere, raccontano la nascita di una consapevolezza nuova, che va oltre la rabbia e il dolore. Accettare non significa arrendersi, ma riconoscere che si può andare avanti anche con le cicatrici.

tumore papillare tiroideo

“Oggi la risposta alla domanda ‘Perché a me?’ Francesca l’ha trovata. «Non c’è un perché. È successo a me come capita a chiunque. Perché la malattia fa parte della vita».”.

La terapia radiometabolica della tiroide in isolamento

I medici spiegano a Francesca che, a seguito del risultato istologico che conferma la natura maligna del tumore alla tiroide, si farà una terapia con iodio radioattivo, prevista per febbraio 2025.

In pratica, la terapia radiometabolica della tiroide consiste in una forma particolare di radioterapia in pillole. Bisogna assumere delle capsule di iodio-131 che distrugge in maniera selettiva le eventuali cellule malate residue dopo l’intervento chirurgico.
«Mi avevano detto che sarebbe stata una cosa semplice: prendi una compressa, resti isolata un paio di giorni e finisce lì» racconta con tono pacato, ma punteggiato da una certa ironia. «In realtà le pillole erano dodici, non una. E stare chiusa in una stanza piombata, completamente sola, è stato molto più difficile di quanto immaginassi».

La descrizione che ne fa è quella di un isolamento che non è solo fisico. Nei giorni della radioiodio, il mondo è chiuso fuori da porte spesse, il contatto con l’esterno è ridotto a un altoparlante e un telefono. «I dottori e gli infermieri non potevano assolutamente entrare e una telecamera mi riprendeva tutto il giorno. Anche a livello psicologico, non è così semplice da gestire». Ogni due ore, un macchinario misura il livello di radioattività nel corpo. Nessun contatto umano. Nessuna carezza, nessun conforto.

Il giorno successivo alla terapia con radioiodio arriva il dolore. Forte, pungente, localizzato nella stessa zona dell’intervento, ma più acuto di qualsiasi post-operatorio. «Non riuscivo a deglutire, avevo una nausea tremenda. Non riuscivo a mangiare nulla. Mi ero portata l’acqua da casa per potere bere tanto, e avevo con me persino i farmaci per resistere al dolore».

Con la scintigrafia torna la paura

Il momento più angosciante arriva il giorno delle dimissioni quando va a fare la scintigrafia di controllo, l’esame di medicina nucleare che serve a controllare se il trattamento con radioiodio è efficace, e se non c’è più traccia di tessuto tiroideo o di metastasi. Con lei c’è un’altra ragazza che attende il risultato dell’esame scintigrafico.

«Quando l’infermiera ha detto a me che dovevo rifare la scintigrafia e alla ragazza che poteva andare, mi sono sentita mancare. Sono rimasta in attesa, da sola nella stanza, piena di paura e senza alcuna spiegazione. Nella mia testa solo tanta ansia e dubbi. Mi domandavo: È tornato tutto? Non ha funzionato la terapia?».

Solo dopo la seconda scintigrafia, il medico le spiega che si tratta di un controllo di routine, necessario per via dell’operazione più complessa che aveva subìto. Ma quelle parole, arrivate in ritardo, non cancellano l’ansia che l’ha accompagnata durante quei lunghi minuti di immobilità e silenzio.

«A volte basterebbe davvero poco per cambiare in meglio l’esperienza di un paziente» riflette Francesca. Perché quando si affronta una malattia come il cancro, il modo in cui si viene accompagnati nel percorso – anche nei dettagli – fa tutta la differenza. La corretta comunicazione tra medici e pazienti è indispensabile.

Mai sottovalutare il dolore provato da chi ha il cancro

Quando Francesca racconta della solitudine che ha avvertito dopo le terapie. Ne parla con chiarezza perché è in quella mancanza che è germogliato il desiderio di condividere la sua esperienza.

«Dopo un po’, tutti smettono di chiederti come stai. Tu sei ancora immersa nella malattia, ma agli altri sembra superata. Dopo l’intervento stai male, addirittura più male di prima, mentre agli occhi esterni il pericolo è scampato».

È in quella sospensione, tra un prima pieno di attenzioni e un dopo fatto di silenzi, che Francesca capisce quanto sia importante avere accesso alle storie degli altri. A testimonianze vere proprio per sentirsi meno soli.
Questo bisogno l’ha spinta ad aprirsi anche sul suo canale social. A raccontare la malattia senza filtri, insieme ai viaggi e alla quotidianità. «Non volevo fare finta di niente. Non volevo mostrare il lato bello della mia vita. Se anche una sola persona si sentirà compresa leggendomi o ascoltandomi, la mia esperienza sarà servita a qualcosa.»

Il carcinoma papillare della tiroide (detto anche carcinoma papillifero) è il tumore tiroideo più frequente. Francesca sottolinea la tendenza, spesso inconsapevole, a minimizzare il dolore altrui. Soprattutto quando si tratta di tumori con una prognosi favorevole, come quello alla tiroide.

«In tanti mi hanno detto: ‘Dai, tra tutti i tumori ti è capitato il migliore!’», il suo tono, mentre ricorda, tradisce un pizzico di amarezza. «Capisco che lo dicano per sdrammatizzare, ma non funziona. Perché quando sei tu ad affrontare l’operazione, la terapia, le cicatrici… Non esiste il ‘tumore migliore’. È sempre cancro. E fa sempre paura».

Per questo oggi Francesca si rivolge a chi riceve una diagnosi di cancro. A chi è giovane, magari nel pieno della costruzione del proprio futuro, e si sente improvvisamente sradicato. Il suo messaggio è semplice, ma potente: «Se senti che è grave, è vero. Se hai paura, è giusto. Se sei arrabbiata, hai il diritto di esserlo. Non permettere a nessuno di sminuire ciò che provi.»
Perché non c’è un modo giusto di reagire alla malattia. Ogni reazione è legittima. Ogni emozione è valida.

Richiedere ascolto per ottenere soluzioni

Quando la incontriamo, a maggio 2025, Francesca sta bene. Le analisi più recenti sono confortanti: i valori della tireoglobulina – il marker tumorale che tanto l’ha spaventata nei mesi passati – sono quasi azzerati. «L’unica cosa da sistemare è il dosaggio dell’Eutirox» spiega con semplicità.

L’Eutirox è il farmaco sostitutivo della tiroide, che dovrà assumere a vita. Dopo una tiroidectomia, infatti, vengono a mancare gli ormoni tiroidei. Per sopperire a questa mancanza si ricorre alla terapia sostitutiva con farmaci, come Eutirox con levotiroxina da assumere per tutta la vita.

La voce è più leggera, ora. Non perché il dolore sia sparito, ma perché lei lo ha attraversato senza smettere di credere nei suoi progetti.
«Il mio sogno più grande è il lavoro» racconta con il sorriso. La Flaca, una vita con la valigia – il suo canale social – continua a crescere. Adesso tra i contenuti ci sono i viaggi e anche pezzi di vita, esperienze che intrecciano leggerezza e profondità. «Condivido parte della mia quotidianità: un viaggio all’estero, un tramonto inaspettato, una visita di controllo. Tutto ha valore».

Francesca guarda avanti con entusiasmo. Ha in programma due partenze: una per il Giappone, per vivere l’esperienza che ha dovuto rimandare, e una a Londra, dove potrà incontrare Elisa, la fondatrice di Koala Strategy.

La malattia non ha messo in pausa i sogni di Francesca, bensì li ha messi a fuoco. Ha reso più urgente il desiderio di vivere, di scoprire, di creare. Oggi, nel pieno della sua attività di content creator, quei sogni sono più vivi che mai.

Mara Locatelli

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